RISK MANAGEMENT & Volatilità. Questa è la variabile dipendente che ogni strumento quotato subisce a causa del mare di liquidità che imperversa sui mercati finanziari.
L’azione speculativa, che fa parte del DNA dei mercati, tende ad exaltare in modo accentuato le variazioni di prezzo in determinate circostanze determinando improvvisi e bruschi cambi di direzione che rendono più difficile il lavoro di programmazione del Risk Management. Le aziende hanno bisogno di programmare e pianificare la loro azione operativa in modo da stabilizzare tutte le variabili che influenzano i risultati del business. Ciò significa mappare tutti i rischi e le opportunità in modo rilevante in un perimetro il cui range di misurazione per sua natura non è stabile.
Negli ultimi anni, ed ancor prima delle emergenze Covid e geopolitiche, la volatilità dai mercati in cui tipicamente si esprime, quelli azionari, si è estesa anche su quelli in cui operano le imprese: tassi di cambio, materie prime, ora i tassi d’interesse. Senza un’adeguata pianificazione risulta assai difficile governare tutte queste variabili.
La gestione dei rischi generati dalla volatilità richiede competenze maturate in ambiti diversi dall’impresa. Una delle caratteristiche più proprie delle imprese, specie se vissuta con assoluto impegno verso l’innovazione, è il vitalismo culturale. Il vitalismo permette l’accesso a delle risorse capaci di farci reagire brillantemente davanti a qualsiasi variabile, sopportare qualsiasi carico. La qualità in questione apre alla capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti.
Esempi di volatilità in grado di distorcere gli equilibri di qualsiasi business d’impresa ce ne sono fin troppi: dollaro, commodity, energia. Ogni azienda è esposta all’andamento variabile di questi strumenti direttamente e non. Le esperienze negative che si leggono nella cronaca finanziaria non devono costituire prova di demotivazione. Troppo spesso si confonde l’esito negativo di un’azione con le motivazioni di causa effetto.
Nella Critica della ragion pura, Kant scrive: “ogni interesse della mia ragione si concentra nelle tre domande seguenti:
- che cosa posso sapere?;
- che cosa devo fare?;
- che cosa ho diritto di sperare?”
Se la Critica della ragion pura riflette sulla prima domanda, la Critica della ragion pratica è il tentativo di rispondere alla seconda domanda. Il tentativo, dunque, di interrogarsi sull’agire dell’uomo. Non a caso, stavolta la ragione è definita pratica, perché quello che Kant si chiede è cosa deve guidare l’uomo nel suo agire concreto.
C’è una parte della “Critica della ragion pratica” dove Kant riconosce l’esistenza di una conoscenza a priori, definendo la necessità di intervenire laddove esiste una connessione di causa ed effetto. Per il solo motivo che determinate esperienze abbiano avuto esito negativo, non giustificano l’aver rifiutato il caso. Più semplicemente, l’aver fallito.