STRESS_OR TEST: CAUSE, ORIGINI E SOLLECITAZIONI
Se c’è soluzione perché ti preoccupi? Se non c’è soluzione perché ti preoccupi?
(Aristotele)
In un tourbillon di eventi significativi i mercati sembrano rispondere con un atteggiamento anestetizzato, dove prevalgono repliche in cui emerge l’inerzia. L’anestetico è nebulizzato da stress test annacquati, da soluzioni mitigate dalle banche centrali, dalla lunga ombra delle presidenziali americane, dalla negazione di lasciare che il mercato trovi nuovi equilibri da cui ripartire.
Nell’ultimo ciclo di espansione economica, la crescita è stata strutturalmente debole in tutte le aree del globo. Ciò nonostante gli attivi americani si sono apprezzati aggiornando via via nuovi massimi storici, l’ultimo dei quali fissato proprio lo scorso venerdì in coincidenza con la pubblicazione di un dato che palesa un nuovo rallentamento della crescita. L’Europa, fatta eccezione per la Germania, è rimasta intrappolata nel suo esteso ciclo ventennale laterale, mentre gli emergenti hanno segnato il passo durante la lunga moderazione maturata dalla decrescita cinese a partire dal 2008.
All’interno di questo quadro vi sono vicende regionali che accentuano l’inerzia di cui sopra. La Grecia è stata annientata sia sotto il profilo economico che sociale; altri paesi mediterranei hanno sostenuto un consolidamento fiscale senza eguali. L’Italia dopo l’attacco speculativo subito dai propri partner europei, ha patito una riduzione del Pil nell’ordine di 10 punti (in percentuale) dall’avvio della grande recessione del 2007, mentre ha ridimensionato la forza industriale di almeno 20 punti. Sia chiaro questo processo ha origini ben precise e non nasce a causa di Brexit o qualsiasi altro evento simile.
La crisi del nostro Paese e con esso delle banche nasce e si sviluppa a causa della perdita progressiva di competitività del sistema. Sono anni che denuncio il problema con ripetuta ciclicità. Ora il Fondo Monetario Internazionale ammette che il malessere dell’Italia è correlato alla perdita di competitività legata all’appartenenza ad un sistema monetario rigido per un paese poco virtuoso.
Le sofferenze delle banche, come ho scritto qualche settimana fa, non sono il semplice prodotto delle perversioni relazionali, non che non vi siano, derivano da una lunga teoria che contrappone alla strisciante decrescita un’inversamente correlata crescita del debito. In un precedente report ho pubblicato come riprova di questo rapporto perverso l’andamento di Target 2, il quale costituisce il sistema europeo di trasferimenti di fondi interbancari con lo scopo di bilanciare gli squilibri della bilancia dei pagamenti dei paesi membri. Appare evidente dalla lettura del grafico, la contrapposizione del surplus tedesco verso le aree periferiche; l’Italia , come la Spagna, vedono nuovamente riaprirsi il loro disavanzo esattamente come nel mese di aprile del 2012. Con una mano la Germania ha messo sotto pressione il debito pubblico italiano, con l’altra ne ha beneficiato aumentando il proprio surplus., il resto è storia.
Nell’inerzia di cui abbiamo parlato sopra, Rishi Goyal , capo missione per l’Italia del FMI, dichiara in uno studio che il Pil italiano è destinato ad illanguidire per altri dieci anni, meglio, per recuperare la perdita del Pil accumulata dal 2007 ci vorranno almeno 10 anni.
Per cui c’è da temere che altri crediti si tradurranno in nuove sofferenze.
A ciò si aggiunga la struttura industriale delle banche: la loro organizzazione territoriale molto diffusa, risulta obsoleta alla luce dei cambiamenti che la tecnologia ha portato nelle abitudini operative della clientela. Rispetto a 15/20 anni fa sono molto meno le persone che si recano fisicamente in una agenzia per fare operazioni. La rete si è progressivamente sostituita allo sportello fisico, con elevati standard di efficienza produttiva. Per cui oltre agli oneri delle sofferenze si dovranno aggiungere quelli di ristrutturazione del modello industriale. La politica monetaria del QE morde anch’essa infine sul conto economico.
Da qui le ragioni per cui nessuno desidera mettere soldi in un settore che sta iniziando ora ad affrontare i problemi.
Da qui l’idea che nonostante i prezzi esposti in borsa siano molto bassi non costituiscano ancora delle opportunità. In questa fase il mercato teme e prezza di più i rischi rispetto alle prime.
Il FTSE Mib, notoriamente sbilanciato sulle banche in termini di ponderazione, soffre e non riesce ad oltrepassare le resistenze più significative che si contrappongono al recupero. Lo scorso anno, mentre la maggior parte dei gestori istituzionali mettevano al primo posto nelle loro scelte d’investimento l’azionario Italia (dicembre 2015), noi ponevano seri dubbi sulla sostenibilità dei prezzi declinando un’Outlook negativo. In primavera abbiamo stimato rischi che potevano riportare i prezzi nel medio periodo sino a rivedere i minimi del 2012. Sono trascorsi quattro anni dal minimo del 25 luglio, 12.295, i fondamentali sono peggiorati, alcune aziende con ruoli strategici o, quantomeno di rilevanza nazionale, nel frattempo sono passate sotto controlli stranieri, francesi, cinesi, tedeschi, altre rischiano di farlo. Ciò detto rimangono ancora molte eccellenze nel nostro piccolo mercato azionario, in particolare nel segmento delle Mid Cap, perle che di questo passo rischiano di essere sottoposte al presidio di “slow food” .
Tecnicamente l’Eurozona rimane ancora inserita in un contesto negativo che rischia di essere inasprito da eventuali ritorno dei prezzi sotto l’area 10.000 per il Dax, 2890/80 per l’Eurostoxx 50, 16000 per il FTSE Mib.
In generale osservando lo Stoxx 600 il punto più critico da mettere a fuoco in termini strategici e simbolici, rimane il minimo segnato in area 307 dopo l’esito del referendum su Brexit.
In tutto questo periodo il mercato americano è rimasto inerte alle evoluzioni del vecchio continente. L’indice S&P 500 dopo aver fissati nuovi massimi storici si è fermato in una terra di nessuno. Siamo in molti ad attendere quantomeno un test di area 2100 prima di prendere posizione. Il test è significativo in quanto ratifica o meno il recente apprezzamento dei corsi aprendo una nuova stagione di rialzi ( target 2230/50) oppure, in assenza di un contenimento dei realizzi a 2100, un ritorno delle vendite più deciso. In altre parole si teme una bull-trap. Gli utili non sono più entusiasmanti, le vendite, il fatturato, decrescono in molti casi, mentre i multipli sono significativamente elevati. Molti indici hanno oltrepassato soglie di resistenza importanti per cui vorremmo che si completasse un collaudo di tali break up prima di ponderare una prospettiva direzionale.
Anche il comparto degli emergenti sta costruendo un segnale incoraggiante; al momento appare un recupero delle debolezze che si sono sommate tra lo scorso anno e gli inizi del 2016. Il segnale contrasta tuttavia con un ritorno alla debolezza delle commodity a partire dall’atteso ribasso del petrolio dopo il test di 52 usd/bar. Il Baltic Dry Index ritorna sui minimi storici segno inequivocabile di un ulteriore rallentamento dei commerci.
Ciò che in varie misure impietrisce è la risposta che dà allo scenario descritto il mercato dei bonds: il rendimento sul 10 anni USA, come atteso, è ritornato a flettere dopo il test dell’area 1,60/65 dove avevamo fissato il punto di controllo per la tendenza riflessiva. La ripresa del ribasso che ci consente di confermare le nostre attese per una flessione verso area 1,30/1.10, taglia le gambe all’iniziativa sull’azionario.
Il dollaro invece, subisce marginalmente la revisione al ribasso del GDP ed il contestuale ridimensionamento delle attese per il rialzo dei tassi. In realtà credo che fossero rimasti in pochi a pensare che la Fed potesse alzare i tassi nell’anno in corso. Noi ci siamo espressi per un ritorno a politiche restrittive non prima della seconda metà del 2017. In ogni caso l’eur usd si è apprezzato fino a lambire area 1,12. Il range di breve termine rimane comunque sempre lo stesso: 1.13 nella parte alta, 1.0950 in quella inferiore; il trend continua a convalidare una visione neutra a breve con propensione al ribasso per l’euro nel medio.
Segnali di altrettanta avversione provengono invece dalla lettura del cambio usd jpy: le contrattazioni sono scivolate nuovamente sino a lambire l’area più che psicologica 100 usd/jpy. La BoJ cercherà di difendere a tutti i costi tale livello in quanto un ‘eventuale rottura causerebbe problemi significativi alla politica di allentamento monetario della banca centrale giapponese e suonerebbe come un ulteriore allarme per i mercati.