Gli ottimisti ad oltranza non hanno dubbi: positivo. Si tratta di un pensiero facile privo di incombenze e di implicazioni tanto inaffidabile quanto lo è il pensiero negativo ad libitum.
In questo primo trimestre del 2016 sono state impostate molte delle mosse strategiche che domineranno l’anno in corso: la BCE ha omologato l’ampliamento del QE, la Federal Reserve ha delineato il suo probabile percorso ad intermittenza sulla linea di policy monataria, la Bank of Japan ha intrapreso definitivamente la via verso una politica di tassi negativi, la PBOC ha avviato una più attenta politica di gestione del cambio senza peraltro riuscire a frenare la speculazione negativa sul mercato domestico.
Attendiamo altre azioni sul terreno delle commodity, in particolare quello del greggio. Il 17 aprile l’Opec ritorna a riunirsi con l’intento più concreto per trovare un equilibrio tra offerta e prezzi.
In un orizzonte più ampio ma con effetti già presenti andremo incontro alle elezioni presidenziali americane il cui esito sarà scontato nelle letture riservate e non dei sondaggisti.
Tutto si interseca con l’evoluzione del ciclo economico americano entrato in una fase di rallentamento piuttosto marcato, almeno nelle rilevazioni di Markit in merito al sentiment pronunciato dal Purchase Managers’ Index relativo al settore manifatturiero USA; più accentuata le flessione del comparto dei servizi dove il new business è cresciuto al ritmo più lento dall’ottobre 2009.
Quali conseguenze per i mercati, impegnati a riassorbire le perdite di inizio anno, a continuare a comprare bond con duration elevate, e ricoprirsi sulle commodity?
I mercati azionari sono stati oggetto nelle ultime 6 settimane di una rimonta significativa, ma per molti aspetti non sufficiente a togliere dubbi sulla sostenibilità dei rialzi nel futuro prossimo.
Avevamo anticipato a metà febbraio una potenziale azione correttiva del bear market sostenuta da tre leve: la prima azionata dal forte squilibrio prodotto dalle vendite di inizio anno (eccesso di venduto), la seconda dalle attese per il G20= di Shanghai e per il meeting della BCE di marzo, ed infine dai buy back operati ad oltranza dalle compagnie americane al NYSE.
Il recupero dei mercati europei non ha avuto a conti fatti la stessa intensità di quello americano. L’eco delle view, così positive sull’Europa, lanciate a dicembre dagli asset managers più -influenti- sulla sua maggior appetibilità della stessa rispetto alle valutazioni del NYSE, si sono nuovamente infrante sulle prime significative barriere tecniche contro cui gli indici di borsa hanno urtato nelle ultime due settimane. L’Eurostoxx 50 ha terminato la sua corsa esattamente sotto quota 3150 fissando in picco a 3128 (proprio il giorno della BCE!), il Dax non è riuscito ad oltrepassare l’area 10.000, mentre per l’Italia il valico da superare per tentare un recupero più robusto, 19.500, si è rivelato inaccessibile.
L’attenzione per questi indici passa ora nel versante opposto, ovvero sulle soglie sotto le quali rischiano di prevalere nuovamente le vendite. Nell’ordine esse corrispondono, secondo le nostre osservazioni, per il FTSE MIB 17900/17500, per il Dax 9500, per l’Eurostoxx 50 2970/50. Ad aprile avremo quindi una potenziale confusa volatilità all’interno del range circoscritto tra i recenti massimi e le soglie indicate più che una prosecuzione della positività.
In un moneto di confusione in cui la nuova aggressività del QE non trasmette alcun effetto ancora tangibile, i mercati potrebbero allarmarsi e smontare ciò che avevano costruito scontando maggior efficacia dell’azione della BCE.
Qualcuno potrà dissentire sui tempi troppo ravvicinati per cogliere riscontri positivi derivanti dal QE. Vero. Tuttavia uno dei cardini su cui ruotano gli obbiettivi non dichiarati dell’allentamento monetario include il comportamento dell’euro sul dollaro. Il cambio ha un duplice ruolo in questa fase: indurre un aumento dei prezzi importati (materiali di base) e sostenere la competitività delle imprese maggiormente orientate verso l’export oltre i confini dell’UEM..
L’ambigua reazione del rapporto di cambio eur usd alla conclusione del vertice della BCE (è sceso sulla notizia per risalire alle primissime battute della conferenza stampa di Mario Draghi), ha sin da subito raffreddato gli animi. Il rialzo finale sulla soglia di 1.12/1.13 ha congelato gli scambi in un clima di assoluta paralisi. Da qui i primi segnali di un esito che appare inefficace rispetto agli obbiettivi attesi.
Noi riteniamo che sul cambio eur usd ci sia ancora molto da scrivere. A distanza da un anno le contrattazioni continuano a fluttuare tra 1.15 e 1.05, livelli di coda di una distribuzione dei prezzi che concentra la maggior parte degli scambi tra 1.085 e 1.12.
Alla base di questa inedita reazione ci sono certamente gli orientamenti della FED che non desidera un rafforzamento eccessivo del dollaro e che cerca quindi di contrastare, benché i segni delle due linee di politica monetaria siano al momento divergenti. Il braccio di ferro è destinato a tenerci incollati in questo grande range ancora per le prossime settimane. L’attuale congestione rappresenta, secondo una nostra chiave di lettura, il riflesso del timore interlocutorio sul rischio di declino del ciclo economico americano. I timori per un rallentamento della crescita e più ancora il calcolo di potenziali rischi recessivi potrebbero spiegare le ragioni di questa fase di debolezza del dollaro, nonostante vi siano all’interno del board della Fed membri orientati a votare già ad aprile un altro aumento dei Fed Funds. 0
Ciò detto siamo convinti che in un orizzonte più ampio il dollaro rimanga forte e che un rafforzamento dell’euro oltre i limiti del range costituirebbero per loro natura un grande problema per la competitività ancora precaria delle aree periferiche dell’Unione ed un forte elemento di indebolimento del consensus verso l’attuale architettura dell’Unione Monetaria Europea.