INFLAZIONE:I MERCATI SONO TROPPO OTTIMISTICI?
Il focus ritorna sulle banche centrali la cui divulgazione non appare sempre coerente , in ostaggio dei mercati sono vittime della loro incertezza sul futuro*
Siamo tutti fortemente impegnati a spiegare il presente per interpretare il futuro. Per fare questo analizziamo la storia, causa ed effetto. In quanto essere umani, siamo pesantemente indotti dalla società a creare una sorta di parallelo approssimativo tra causa ed effetto. Siamo abituati a pensare che ciò che entra in una qualunque transazione, rapporto o sistema, debba essere messo direttamente in relazione, per intensità e dimensioni, a ciò che ne risulta.
Viviamo in un ambiente di esperimenti finanziari con l’intento di stimolare effetti economici. Le banche centrali sono fortemente impegnate a scongiurare la prosecuzione di questo lungo ciclo di stagnazione di cui non si vedono ancor oggi i confini. Soprattutto da ormai dieci anni stanno esorcizzando il rischio che si ripeta la Grande Depressione degli anni trenta.
Tra gli effetti economici fortemente perseguiti rientra l’inflation targeting, linea di politica monetaria inserita nel panel di misure adottate dalle banche centrali sin dalla fine degli anni settanta. Mentre tra il ‘70 ed il 2000 l’obbiettivo era quello di produrre una grande moderazione della spinta inflattiva a beneficio della crescita economica, dal 2008 l’inflation targeting persegue il desiderio di evitare la deflazione, sempre a beneficio della crescita. Questa volta l’impegno profuso mira a promuovere la crescita dei prezzi; il 2% era e rimane il parametro a cui le linee di policy fanno riferimento.
Il QE è stato progettato con lo scopo nobile di favorire questo riequilibrio. Last but not least, gli stimoli monetari su grande scala hanno cercato di puntellare prima, rafforzare poi, la fragilità del sistema bancario. Tutto ciò ha prodotto una quantità di debito che complessivamente sfiora il 330% del Pil mondiale. Nel 2007 tale grandezza misurava il 275%, nel 2000, quando scoppiò la prima crisi globale, il totale quotava poco sotto il 250%.
La progressione del debito generato per guarire il malato, non consente ancor oggi di revocare lo status di prognosi riservata in molte economie regionali, probabilmente anche in quella globale.
Molte aree economiche hanno fatto ricorso a svalutazioni competitive per recuperare produttività. L’Unione Europea, nel caos generale delle manovre monetarie, ha anticipato il suo Qe con una svalutazione dell’euro significativa. Il deprezzamento del cambio tuttavia ha mosso in modo trascurabile, per non dire frazionale, il livello dell’inflazione importata. Probabilmente ha consentito di minimizzare il periodo deflattivo. Eppure il cambio da1,60 contro dollaro è sceso mediamente a 1,10! Nel contempo la regressione media dei prezzi del Brent si è attestata a 65 usd il barile.
Il ribasso dell’euro è maturato nella disattenzione generale. Pochi hanno chiamato quel ribasso in tempi utili per sfruttarne l’azione. La gran parte degli investitori e commentatori se ne sono accorti soltanto dopo l’avvio esecutivo del Qe da parte della BCE. Noi abbiamo in più occasioni richiamato l’attenzione verso quel ribasso con un ultimo appello in area 1,40 eur usd. Successivamente abbiamo ritenuto, a torto o a ragione, di stimare l’ampiezza della discesa sotto la parità. A ragione in quanto pensiamo che l’esperimento monetario dell’euro non stia funzionando a dovere.
Per funzionamento intendiamo un euritmico equilibrio tra le economie che hanno convertito le proprie monete in euro: l’Eurozona.
A ragione perché il cambio unico ha contribuito a far aumentare il livello della disoccupazione oltre i limiti dell’infelicità di una nazione. Ma soprattutto perché gli squilibri hanno causato una prima crisi del debito sovrano su scala continentale.
A torto perché dopo ventiquattro mesi di fluttuazione all’interno di una grande range, 1,15/1,03, il ciclo ribassista è stato anestetizzato dal fatto che una parte del governo mondiale ha deciso di combattere lo stratosferico surplus tedesco a danno di economie che sulla debolezza dell’euro hanno sopravvissuto, tenendo il galleggiante della crescita poco sopra il livello di affondamento (Italia).
Gli effetti collaterali degli stimoli monetari e della guerra tra valute ha forse un unico vincitore netto: la Germania. Finanza pubblica, crescita, occupazione, partite correnti e bilancia commerciale sono in grande salute. Nel resto dell’Unione si calcolano i danni collaterali. Mentre in Germania il Cancelliere si candida a ricevere il quarto mandato elettorale, nel resto dell’Europa abbiamo tra crolli di plebiscito e quant’altro un profondo disordine elettorale. Laddove ci sono stati degli eletti, i suffragi effettivi risultano minoritari. Privi del consenso vero, che ormai conta poco. Ma che alla prova dei fatti ci si deve sempre appellare.
In sintesi l’Unione conta: 80 milioni di persone, consumatori tedeschi soddisfatti, benchè consumino poco, contro 500 milioni di altrettante persone, consumatori, con molti interrogativi sul proprio futuro prossimo.
Su questo ruvido ed estremo compendio si guarda all’inflazione declinata in funzione della crescita. Più ancora si fa il punto per analizzare gli effetti del QE su crescita ed inflazione, aprendo l’interrogativo se sia giunto il momento di ritirare le misure emergenziali. Sciogliere la prognosi.
A Sintra il Governatore della BCE si è detto soddisfatto del lavoro svolto. Gli stimoli stanno producendo gli effetti desiderati. Proprio per questo, se abbiamo compreso correttamente!, il Qe continua. I tassi straordinariamente bassi, stanno facendo il loro lavoro: hanno allontanato i rischi deflattivi, animando una ripresa dell’inflazione che rimane comunque ben al di sotto del target del 2%. Motivo per cui si ritiene appropriato mantenere il tenore della linea monetaria ancora accomodante.
Di Tapering si parlerà in futuro. Quando? Nel futuro prossimo o in quello condizionale?
Probabilmente in quello condizionale. E comunque molto tempo dopo la chiusura del QE. Questo è quanto abbiamo inteso dalle parole del Governatore.
I mercati invece hanno decodificato le parole di Mario Draghi in un impegno prossimo per la conclusione del Qe e l’avvio di una politica restrittiva. L’inflazione nel frattempo riprende a flettere.
Negli USA accade l’esatto contrario, l’economia, nonostante tutto, cresce. Il ritmo appare distonico, i dati producono ad intermittenza valori positivi. Al netto delle incertezze l’economia produce piena, o quasi, occupazione. L’inflazione appare inserita in un trend di moderata crescita. Il Tapering (traduzione letterale – assottigliamento – consiste nell’avvio di un processo attivato dalle banche centrali per ridurre le misure straordinarie di politica monetaria espansiva e tornare verso la “normalità”), su cui la Federal Reserve si sta impegnando, procederà con una riduzione del bilancio attraverso la progressione di liquidazione di titoli presenti tra i propri attivi.
Ciò potrebbe produrre come effetto diretto un innalzamento dei rendimenti nel tratto lungo della curva con riflessi su quello medio e breve.
In altri termini mentre la Banca Centrale Americana sta già percorrendo un sentiero restrittivo, quella europea appare ancora lontana dal farlo. Le condizioni, ovvero se e quando metterà in atto tali misure appartengono come scritto al futuro condizionale. E’ lo stesso Governatore che pone subordini per una sua applicabilità.
Ci chiediamo quindi quale sia il valore effettivo del rapporto di cambio tracciabile sulla base di queste divergenze parallele. Più che le aspettative monetarie pesa politicamente il surplus commerciale tedesco. Ma l’euro non è solo Germania, l’euro è moneta condivisa da 19 tra i 28 paesi che costituiscono l’UE.
Se all’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona togliamo il surplus relativo alla Germania (euro 17,90 Bil – euro 22,00 Bil) il saldo diventa neutro-negativo, in linea con quello allargato ai 28 paesi.Per cui il rafforzamento dell’euro sul dollaro assume più veste politica che economica.
A nostro avviso lo scontro sui mercati si giocherà principalmente sull’andamento dello spread tra rendimenti USA rispetto a quelli Germania. Il differenziale sul dieci anni è passato 235 punti base di fine 2016 a 180. Per riattivare un maggior interesse sul dollaro probabilmente dovrà ritornare oltre 190-195 pb.
Le tensioni sui rendimenti relativi al tratto lungo della curva ci dicono che il mercato sta guardando oltre alla narrazione delle banche centrali. Il 10 anni USA è ritornato a salire e come scriviamo nella scheda tecnica rischia di mettere nuovamente pressione all’area 2,60. Il livello, che non è stato più oltrepassato da quando nel settembre 2014 è stato violato al ribasso, continua a rappresentare la soglia oltre la quale si rischia di assistere ad un cambiamento degli equilibri.
Per il momento i bassi livelli di volatilità sull’azionario hanno annullato gli effetti correttivi sui principali indici, producendo in molti casi perdite di momentum anestetizzate nonostante alcune valutazioni possano sembrare eccessive. Le banche centrali, come ha dimostrato recentemente l’intervento della BoJ sul mercato dei bond sovrani, rimangono ancora interlocutori assoluti per il mercato. Le loro mosse benché prevedibili diventano sempre più messaggi composti da un numero di segnali superiori a quelli teoricamente necessari.
*Tratto dal report mensile WB>PERSPECTIVES