L’informazione è sempre più liquida. Nell’Era dell’Accesso la gente è sempre più interconnessa, così cambia il paradigma informativo. Le Fake News sono direttamente proporzionali al desiderio di educare il pensiero.
Da secoli ormai il denaro e le banche sono alchimia finanziaria, scrive nel suo ultimo libro Mervyn King, già governatore della Bank of England. Da almeno un lustro i social sono diventati alchimia informativa, dove in forma liquida si organizza e costruisce l’opinione comune. In un minuto su Twitter vengono postati 452 mila tweet, ogni giorno su Facebook navigano un miliardo e trecentosessanta milioni di utenti. Ciò produce un player che vale 78 miliardi di dollari, 38 miliardi tra liquidità e strumenti prontamente negoziabili, con un reddito netto di 4,7 miliardi di dollari.
Si capisce che un gigantosauro di questa dimensione può tutto o quasi. E’ chiaro comunque che, mentre nel mondo della finanza si discute molto di Mifid II, fuori le notizie e le informazioni che influenzano il mercato e il pensiero dei risparmiatori hanno dimensioni iperlative. L’estensione liquida di questo fenomeno diventa disruptive, disintermediando i grandi media. Il grido di dolore lanciato in questi giorni da chi governava un tempo l’informazione restituisce una prova della perdita reputazionale intesa come capacità di influenzare l’opinione comune.
Benoit Couré, membro esecutivo del Board della BCE, ha dichiarato in un recente meeting che in futuro la BCE dovrà rilasciare comunicazioni costruite sulla base di come gli algoritmi e l’intelligenza artificiale elaboreranno il loro contenuto in termini di risposte operative.
Le Fake News entrano a tutti gli effetti e trasversalmente nella guerra liquida dell’informazione. Ciò significa che il lavoro di un team di ricerca come il nostro, dovrà sempre più concentrarsi su come i prezzi interpretano le notizie al netto delle divulgazioni inquinate che in ultima analisi sono esposte a forti pressioni di conflitti d’interesse.
Il prezzo sconterà sempre tutto? Probabilmente si. Nel prezzo c’è l’interesse di chi manipola, di chi segue, di chi si informa, per cui tenderà a scontare il noto e l’ignoto. Da sempre chi detiene informazioni riservate governa il primato dell’azione e tende a scaricare sui prezzi il vantaggio acquisito.
Gli asset prezzano in questo momento una visione positiva del mercato con qualche elemento di incertezza. Sugli indici azionari, come scriviamo da tempo, al di là di parziali eccessi di comprato, non sono presenti azioni di distribuzioni evidenti da far presupporre la formazione di un reversal del bull market. Ciò non significa che siano immuni da azioni correttive, le quali rientrano nei processi di riequilibrio nell’elasticità della domanda e dell’offerta. I rendimenti core fluttuano al di sotto delle soglie sensibili, ovvero al riparo da eventi di breakup che potrebbero mettere in discussione il bull market. Come scriviamo dalla fine dello scorso anno tali soglie corrispondono all’area 2,50/60 per il 10 anni USA, 050/0,70 per il 10 anni Germania. Eventi di breakup di questi livelli sconterebbero un cambiamento di bias sulla liquidità presente sui mercati scatenando di conseguenza un ribilanciamento delle strategie di portafoglio.
Nell’Outlook per il 2018 il consensus si presenta concentrato su un appiattimento della curva americana. Quindi non considera al momento un potenziale breakup. I driver che attualmente sostengono le quotazioni azionarie fanno leva sull’imminente approvazione della riforma fiscale negli USA.
Già oggi potremmo ritenere che gli effetti della riforma siano almeno in parte scontati sui prezzi attuali. Ciò che non sconta il mercato è una linea forse ancor più morbida della politica monetaria statunitense in grado di annacquare la road map sui tassi annunciata dalla Federal Reserve.
Sul fronte delle commodity rimangono attive le pressioni sugli acquisti di oil. Alla fine dello scorso dicembre i prezzi del Brent quotavano 56 usd/bar.
La domanda nel corso dell’anno è rimasta pressoché persistente, tuttavia i prezzi sono scesi sino a 45 usd/bar. Il nostro Outlook sul greggio stimava invece un potenziale target a quota 65 usd e un ulteriore successivo target in area 75 usd/bar. Nel momento più acuto del ribasso le notizie sull’offerta si sono caricate di rimandi via via sempre più negativi. Proprio alla fine della primavera, invece, dopo una serie di vertici Opec molto combattuti sul tema del controllo della produzione, i prezzi hanno cominciato ad invertire tendenza riallineandosi alla nostra view di mercato. Questa settimana l’Opec ritorna a discutere sulle quote estrattive con i valori del barile che stanno collaudando area 63/65 usd. E’ probabile che il mercato non sia pronto per oltrepassare la barriera tecnica nell’immediato. Non escludiamo ritorni verso area 61/60 prima che si manifesti nuovamente la domanda in termini più netti. L’eventuale rialzo del greggio oltre il primo target, 65 usd/bar, potrebbe tuttavia innescare un processo di maggior interesse per tutto il comparto delle commodity. Il rame, che ha corso molto quest’anno, a conferma di quanto scritto conserva un appeal rialzista. L’indice CRB, pur con una certa lentezza, si sta avvicinando ai target che sempre agli inizi dell’anno stimavamo come potenziali obbiettivi di crescita in un reversal del ciclo riflessivo che aveva governato il comparto delle commodity dal 201.
C’è da chiedersi quindi se la conferma di un ulteriore espansione dei corsi delle materie prime sia propedeutico a due fattore interconnessi: aumento della crescita ed aumento dell’inflazione.
Sul primo punto l’Ocse è intervenuta aggiornando in positivo le stime sull’espansione del ciclo globale, mentre sul secondo punto oggi non abbiamo ancora traccia che possano preludere ad un cambiamento di paradigma. Per l’Eurozona il secondo punto interseca direttamente l’andamento del cambio. Le commodity pagate in dollari tendono a modificare il loro prezzo in virtù del cambio euro dollaro.
Quanti ci seguono sanno che nutriamo dubbi sulla solidità dell’euro per tutte le ragioni che il panorama socio politico mettono in evidenza in Europa. I dubbi rimangono quando i profondi squilibri all’interno del perimetro dell’euromoneta tendono ad acuire senza contropartite. Per cui, in mancanza di una revisione dei trattati, o di un maggior profilo sui vincoli di solidarietà tra i partner, appare chiaro che il clima di esasperata precarietà non possa continuare all’infinito. Diversamente avremo il sud Europa alla deriva contrapposto al progressivo rafforzamento del nord. La divergenza assumerebbe tali dimensioni da disgregare ogni possibile legame.
Su questa lunghezza d’onda intersecano una serie di fattori fortemente dirompenti: i tassi d’interesse e andamento del cambio. Da qui ai prossimi 12 mesi la Germania imporrà un aumento dei tassi d’interesse per varie ragioni. L’Italia dovrà rispondere con un aumento della pressione sul costo di servizio del debito. Se l’economia non sarà in grado di crescere a sufficienza, per far fronte con il gettito derivato all’aumento del costo, si innescheranno molte tensioni. Stimiamo che ogni 50 punti base di aumento dei tassi corrisponda ad un maggior fabbisogno per oneri pari a 2 miliardi di euro. Con la pressione sul bilancio da parte della Commissione Europea e l’obbligo a tendere al pareggio, per l’Italia crescere diventa imperativo. C’è da chiedersi quale possa essere il contributo alla crescita da parte dei consumi con l’attuale pressione fiscale.
Già oggi potremmo ritenere che gli effetti della riforma siano almeno in parte scontati sui prezzi attuali. Ciò che non sconta il mercato è una linea forse ancor più morbida della politica monetaria statunitense in grado di annacquare la road map sui tassi annunciata dalla Federal Reserve.
Sul fronte delle commodity rimangono attive le pressioni sugli acquisti di oil. Alla fine dello scorso dicembre i prezzi del Brent quotavano 56 usd/bar.
La domanda nel corso dell’anno è rimasta pressoché persistente, tuttavia i prezzi sono scesi sino a 45 usd/bar. Il nostro Outlook sul greggio stimava invece un potenziale target a quota 65 usd e un ulteriore successivo target in area 75 usd/bar. Nel momento più acuto del ribasso le notizie sull’offerta si sono caricate di rimandi via via sempre più negativi. Proprio alla fine della primavera, invece, dopo una serie di vertici Opec molto combattuti sul tema del controllo della produzione, i prezzi hanno cominciato ad invertire tendenza riallineandosi alla nostra view di mercato. Questa settimana l’Opec ritorna a discutere sulle quote estrattive con i valori del barile che stanno collaudando area 63/65 usd. E’ probabile che il mercato non sia pronto per oltrepassare la barriera tecnica nell’immediato. Non escludiamo ritorni verso area 61/60 prima che si manifesti nuovamente la domanda in termini più netti. L’eventuale rialzo del greggio oltre il primo target, 65 usd/bar, potrebbe tuttavia innescare un processo di maggior interesse per tutto il comparto delle commodity. Il rame, che ha corso molto quest’anno, a conferma di quanto scritto conserva un appeal rialzista. L’indice CRB, pur con una certa lentezza, si sta avvicinando ai target che sempre agli inizi dell’anno stimavamo come potenziali obbiettivi di crescita in un reversal del ciclo riflessivo che aveva governato il comparto delle commodity dal 201.
C’è da chiedersi quindi se la conferma di un ulteriore espansione dei corsi delle materie prime sia propedeutico a due fattore interconnessi: aumento della crescita ed aumento dell’inflazione.
Sul primo punto l’Ocse è intervenuta aggiornando in positivo le stime sull’espansione del ciclo globale, mentre sul secondo punto oggi non abbiamo ancora traccia che possano preludere ad un cambiamento di paradigma. Per l’Eurozona il secondo punto interseca direttamente l’andamento del cambio. Le commodity pagate in dollari tendono a modificare il loro prezzo in virtù del cambio euro dollaro.
Quanti ci seguono sanno che nutriamo dubbi sulla solidità dell’euro per tutte le ragioni che il panorama socio politico mettono in evidenza in Europa. I dubbi rimangono quando i profondi squilibri all’interno del perimetro dell’euromoneta tendono ad acuire senza contropartite. Per cui, in mancanza di una revisione dei trattati, o di un maggior profilo sui vincoli di solidarietà tra i partner, appare chiaro che il clima di esasperata precarietà non possa continuare all’infinito. Diversamente avremo il sud Europa alla deriva contrapposto al progressivo rafforzamento del nord. La divergenza assumerebbe tali dimensioni da disgregare ogni possibile legame.
Su questa lunghezza d’onda intersecano una serie di fattori fortemente dirompenti: i tassi d’interesse e andamento del cambio. Da qui ai prossimi 12 mesi la Germania imporrà un aumento dei tassi d’interesse per varie ragioni. L’Italia dovrà rispondere con un aumento della pressione sul costo di servizio del debito. Se l’economia non sarà in grado di crescere a sufficienza, per far fronte con il gettito derivato all’aumento del costo, si innescheranno molte tensioni. Stimiamo che ogni 50 punti base di aumento dei tassi corrisponda ad un maggior fabbisogno per oneri pari a 2 miliardi di euro. Con la pressione sul bilancio da parte della Commissione Europea e l’obbligo a tendere al pareggio, per l’Italia crescere diventa imperativo. C’è da chiedersi quale possa essere il contributo alla crescita da parte dei consumi con l’attuale pressione fiscale.