THE BIG BORDER ADJUSTMENT
La riforma fiscale americana, un rischio per il commercio internazionale
E’ probabile che nei sondaggi di opinione tra i money managers sui rischi che pesano sui mercati in questo 2017, le elezioni europee rappresentano la leva più distruttiva. In realtà la riforma fiscale sulla tassazione delle imprese americane annunciata dal presidente Donald Trump, The Big Border Adjustment, costituisce un elemento di attenzione estremamente rilevante, soprattutto sul lato delle importazioni e delle esportazioni.
Le imprese attualmente pagano le imposte sui profitti realizzati. La riforma Border Adjustment cambierebbe le modalità con cui si procederebbe al calcolo della formazione degli utili. Le importazioni non potrebbero più determinare componenti di costo mentre i ricavi da esportazioni non concorrerebbero più a formare la base su cui calcolare gli utili ai fini fiscali. In pratica il conto economico sarebbe costituito ai fini della tassazione soltanto dal differenziale tra costi e ricavi maturati nel Paese senza il concorso delle importazioni quali componenti di costo e delle esportazioni quali componenti di ricavo.
E’ chiaro il segnale protezionista e le relative reazioni che un simile provvedimento rischia di scatenare sul commercio mondiale. Il provvedimento incentiverà inoltre le aziende a rilocalizzare la loro produzione negli Stati Uniti.
Nelle prossime settimane Il Congresso sarà chiamato ad avviare discussione sulla riforma dell’imposta sulle società. Il progetto di riforma del Partito Repubblicano combacia in diversi punti con quello abbozzato da Trump. Entrambi prevedono una sensibile riduzione delle aliquote d’imposta e la deducibilità totale dal reddito imponibile degli investimenti effettuati, più che degli interessi pagati . Il “border adjustment” rischia tuttavia di provocare serie controversie, tra il Presidente e il Congresso, ma ancora più certamente tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Ad un’attenta riflessione tuttavia si potrebbe argomentare che il provvedimento porta con se innumerevoli complicazioni e potenziali contraddizioni. Il Partito Repubblicano è per tradizione allineato su principi favorevoli al libero scambio.
Immaginiamo dunque che il “border adjustment” sia adottato. Che succederebbe? La risposta dei fautori della misura è semplice: le imprese americane, di fronte al costo fiscale delle loro importazioni e all’assenza di imposta alle loro esportazioni, sarebbero spinte a importare di meno ed esportare di più. Il saldo corrente americano si ridurrebbe e il dollaro si apprezzerebbe fino a neutralizzare l’incentivo a esportare di più e importare meno legato a questa misura. Dunque, il dollaro si apprezzerebbe fintantochè i vantaggi fiscali di tale misura non siano assorbiti dalla perdita di competitività delle esportazioni. I promotori della riforma sostengono che con un’aliquota sugli utili abbassata al 20%, un apprezzamento del dollaro del 25% garantirà la “neutralità commerciale” dell’adeguamento frontaliero. Adottare dei dazi doganali potrebbe costituire la via più semplice anche se non meno complessa sotto il profilo politico. Inoltre conosciamo l’opinione del Presidente in merito al dollaro forte. E’ pur vero che la ciclicità con cui il dollaro tende a muoversi nei mercati internazionali sia più ritmata dalle opportunità finanziarie che non dall’andamento esclusivo della bilancia commerciale.
Al momento l’indice sul dollaro, il Dollar Index, dopo aver consolidato per oltre 18 mesi l’area 100-92 è tornato ad apprezzarsi. Come ho scritto in più occasioni a partire dal 2014, il dollaro rimane forte per molteplici fattori, non ultimo per il riflesso che gli squilibri all’interno dell’Eurozona producono in termini di sfiducia verso l’euro. Le stime che in epoca remota avevo formulato fissando un primo obbiettivo in area 100 ed in successione a 105 & 108 rimangono sempre valide.