Siamo ancora in guerra valutaria? Dal mese di maggio del 2014 il dollaro ha guadagnato sull’euro il 25%. Successivamente ridemensionato con la correzione di questi giorni al 19%. Dal lancio della prima versione del QE l’euro anzichè perdere terreno ha recuperato sul dollaro il 9%. Nemmeno il round successivo del Qe, quello rilanciato a marzo, è riuscito a raffreddare la forza dell’euro. Molti si chiedono il perchè in quanto logica vuole che con il QE, ovvero con la stampa di moneta, il valore intrinseco dovrebbe svalutarsi. Non è successo ne per l’euro, tantomeno per lo yen. Si sono avanzate più ipotesi per dare una motivazione all’enigma, ma gran parte di esse non hanno avuto un gran successo. L’unica chiave di interpretazione in grado di decifrare il codice ambiguo di questo fenomeno risiede nella lettura approfondita dell’ultimo G20 celebrato a Shanghai.
Si ritiene che le banche centrali si siano accordate per stabilizzare il cambio del dollaro contenendone la forza in modo da prevenire tensioni ulteriori sul lato delle aree emergenti. Il debito di questi paesi per molti anni è stato emesso in dollari, un pò per dare maggior appetibilità alle loro emissioni, un pò per contenere i costi del funding nei tempi in cui il biglietto verde fluttuava in un bear trend.
Con il Tapering (con il termine tapering si indica la progressiva riduzione degli stimoli monetari concessi da una banca centrale all’economia o al sistema bancario del proprio paese, che rientra progressivamente all’interno di un contesto economico indipendente), il dollaro è ritornato dapprima a stabilizzare le proprie quotazioni, per rafforzarsi successivamente, a seguito delle attese per l’avvio di una fase di rialzi dei tassi d’interesse. Il progressivo rialzo del dollaro ha messo in seria difficoltà i debitori emittenti, penalizzati ulteriormente dal ribasso dei prezzi delle commodity. A ciò si aggiunga l’interesse da parte della Federal Reserve di tutelare la competitività delle proprie aziende in una fase non più così espansiva come nel periodo 2009-2015. Un ulteriore fattore di interesse a contenere la forza del dollaro è legittimata dalle stesse per proteggere gli earnings, le royalty nonchè i dividendi prodotti fuori dall’area dei mercati dollar_based.
Quali sono le conseguenze per l’Eurozona con l’euro più forte in una guerra valutaria?
Tra gli obbiettivi non dichiarati dalla BCE nell’avviare la manovra degli stimoli monetari vi era anche quello di indebolire il cambio. Un euro debole avrebbe aiutato a rendere più competitive le aree periferiche nell’export, unica voce dell’attivo del GDP a migliorare gli standard di crescita. L’euro più debole doveva stimolare una ripresa dell’inflazione, avvicinado i tassi crescita ai target desiderati dalla Banca Centrale. Il rialzo dell’euro rappresenta quindi per molti osservatori la conferma del fallimento della linea politica adottata dal Regulator. In effetti siamo in piena deflazione, l’economia continua a manifestare una debolezza strutturale non ultimo le esportazioni ritornano a flettere.
Potremmo allungare l’elenco delle condizioni di causa effetto controbattendo che una stabilizzazione del dollaro può rilanciare un recupero delle commodity e quindi riattivare attraverso il canale diretto dell’input price una spinta maggiore prprio all’inflazione. Ma gli effetti sull’export con un euro forte sarebbero direttamente proporzionali ad una perdita di competitività per il manifatturiero.
Ma che cosa significa euro più forte?
Il rialzo dell’ultimo mese ha spinto il cambio oltre soglie tecniche estremamente significative. Il break-up di 1.1270 eur usd, ha aperto potenzialmente un’area di apprezamento dell’euro che potrebbe spingerlo nel futuro prossimo sino a toccare i massimi fissati lo scorso agosto 1.1550/1.1700 con il rischio che si verifichino movimenti di coda verso 1.18/1.20. Si tratta di valutazioni empiriche che probabilmente rischiano di scontrarsi proprio con gli accordi adottati dalla banche centrali. Noi pensiamo che nel breve termine sarà abbastanz aimprobabile che l’euro ritorni ad indebolirsi significativamente. E’ probabile che si rimanga in una situazione di range laterale ancora per qualche mese (giugno?). Tuttavia qualora la banda di oscillazione 1.05-1.15 continuasse a dominare il mercato dei cambi sarebbe verosimile pensare che la tendenza di fondo del cambio euro dollaro rimanga ancora regressiva. Soltantooltre 1.22/1.25 potremmo ritenere chiusa questa stagione di forza della moneta americana.
A giugno si voterà il refrendum Brexit, la Grecia non ha risolto minimamente i suoi problemi, aumentano il consenso degli euroscettici: Austria, Finlandia, benchè ancora in minoranza vi sono schieramenti apertamenti avversi all’esperienza dell’euro in Germania ed in Olanda. Alcuni paesi che sono entrati nell’Unione Economia Europea non sono più così attratti dalla conversione della propria moneta con l’euro, Polonia e Ungheria.
Tuttavia ogni qualvolta l’UEM entra in collisione con problemi finanziari, vedi Grecia, l’euro anzichè subire attacchi speculativi tende a rafforzearsi. Con la fine della primavera queste tensioni potrebbero ritornare a farsi strada soprattutto se dal referendum inglese dovesse emergere un segnale di avversione all’UEM.
Per il momento è la sterlina a subirne le conseguenze nella guerra valutaria. Il cambio eur gbp verifica in queste ore area 0.80/81 dove transitano resistenze significative. In ogni caso la debolezza del pound trae origine dall’indebolimento che ha subito nei confronti del dollaro perdendo quota 1.45. In questi giorni il mercato tenterà di recuperare tale livello per evitare cadute molto più profonde del cable.
Infatti se dovesse cedere area 1.40/1.39 assisteremo ad un altra caduta verso 1.35 gbp usd.
Nelle prossime settimane la Fed potrebbe sfruttare il rialzo delle commodity e dei bond emergenti per trovare spazi ed alzare ancora una volta i Fed Funds rimettendo in ordine la situazione tecnica delle monete attualmente sottoposte al QE: euro e japanese yen.
La pax valutaria rimane un obiettivo sempre difficile da raggiungere.
Wlademir Biasia
Partner Foundation of WBA
Professor in Banking and Finance Dep. of Economics and Statistics
Udine University